I wanna wake up in a city that doesn’t sleep…

Pubblichiamo di seguito una mail che mi è stata inviata da una mia carissima amica (nonché grandissima scrittrice) sulla notte delle elezioni americane (ma non solo) viste da New York…

La carica erotica de ‘il ponte sul fiume kwai’. lo so quel che si dice in merito ai critici cinematografici che vedono nei film ciò che il loro inconscio fa loro vedere, e per questo la mia analisi di una
scena de “Il ponte sul fiume kwai” potrebbe preoccuparmi, ma non è detto.

Comunque, nella scena il comandante della missione inglese atta a distruggere il ponte, con così tanto amore e dedizione costruito dal frustrato Alec Guinness, insegna a una cinesina come infilare una
munizione dentro un tubo, presumibilmente un’arma, posto in posizione eretta e sorretto dal comandante, che a operazione conclusa dice: brava!
E in ciò si dipana il duplice significato di “carica” in questione.
Ma il film è portatore di numerosi altri meriti, tra i quali un gran bell’uso dell’ironia, per nulla datata, e grandi interpreti.

Io poi, per un periodo della mia adolescenza, dopo Cary Grant, sono stata innamorata di William Holden e il mio amore è stato così forte che non riuscì a deludermi neanche quando morì cadendo e sbattendo la testa
sul comodino perché ubriaco.
E infine il bel messaggio pacifista sull’insensatezza e inutilità della guerra, concreto e per nulla retorico. Perché è quando entra in gioco la retorica, la retorica della guerra, la retorica dell’onore, che si cade in errore, e invece la verità è che serve più coraggio a vivere da essere umani, che a morire da eroi! (parole di William).

Perdonatemi se un po’ divago, sono tornata solo da qualche giorno da New York e sto ancora combattendo col jetlag. Ma più che di jetlag temporale parlerei di jetlag culturale. A NY il teatro che mi si
presentava davanti uscendo dall’Edison, l’albergo, aveva in cartellone Spamalot, testo Monty Python regia Mike Nichols.
Sull’autobus che mi porta verso casa a Torino apro gli occhi svegliandomi dal torpore che mi ha preso dopo quelle che sarebbero più di 24 ore di viaggio se non fosse per il fuso e per lo sciopero
Alitalia che mi ha portato da NY a Roma e da lì a Malpensa, dove ho aspettato tre ore un autobus per Torino: welcome home! Non ci provo neppure a calcolare, comunque, il peggio è che apro gli occhi su Marco
Columbro e Mariangela D’abbraccio in cartellone con Romantic Commedy, e accanto lo spettacolo di Zuzzurro e Gaspare che pensavo tra l’altro essere già morti entrambi l’uno a poca distanza dell’altro
emuli di Stanlio e Ollio.
Mi sono ufficialmente innamorata di New York. Per lei ho sofferto di nostalgia preventiva. Io che non voglio innamorarmi di un uomo per non sentirmi stupida, mi sono lasciata abbindolare da una città.

Mira cogno mira! urlavano i barboni portoricani a ogni stato che conquistato da Obama si colorava di blu (il cogno era per McCain).
A NY la notte delle elezioni mi trovavo al Rockfeller Center e poi in Times Square, e quella notte ho visto cose che voi umani non potreste neppure immaginare, altro che navi da combattimento in fiamme al largo
dei bastioni di orione e raggi uv balenanti vicino alle porte di Tannoiser, non ho mai visto tante persone felici tutte insieme, ognuno che esprimeva la gioia a modo suo, e tutti urlavano OBAMA!
Tutti con la voglia di condividere quello sfogo quella speranza.
Essere lì nel momento stesso in cui stava accadendo, vederlo senza i filtri di chi per me deciderà cosa farmi vedere e ascoltare, sentire l’urlo che si è alzato a vittoria consacrata, è stato veramente bello,
così bello che pensi sarà unico e irripetibile.
Se volete farvene un’idea cercate su youtube time square election day o Rockfeller Center election day, e tra la festante folla potreste pure intravedermi.

L’Empire State Building, con la nebbia in cima, e i muri sgretolati all’interno e la città che si srotola sotto… quartieri e grattacieli…
blocchi di storie. e in un unico gorgoglio dal basso la voce della città.
NY è forse il posto dove vecchio e nuovo meglio si fanno compagnia, con leggerezza e misura, come per non volerti annoiare mai. Chi la osserva dice è un mega-transistor, o anche un merletto, e questo
lascia intendere la miriade di stimoli che trasmette già solo a guardarla (perdonate mio eccessivo lirismo, ma sapete l’amore com’è).
Atmosfera simile a quella dell’Empire all’Edison, l’albergo, vicino a Times Square, molto Shining: con la moquette consumata, gli specchi macchiati, la musica anni ’30 sempre accesa sulle porte girevoli, e
i portieri coi grandi cappelli e la livrea scura.
Intorno a Times Square è il quartiere dei teatri e c’è sempre un gran movimento fino a tardi, e allora prima di tornare in albergo, col mio small black tea bollente preso da Starbucks (che dopo un po’ ho
smesso di contare quante bustine di zucchero ci buttavo dentro e dove ho fatto amicizia con giovane cameriera afroamericana), io mi siedo per un po’ in Times Square, vicino alla scalinata rossa dove tutti i
matti, i rappari, i turisti, i naked cowboy e gli antichi romani amano venire a fotografarsi.
Un giorno in Times Square ho assistito alla proclamazione ufficiale di un nuovo guinness dei primati. Era una donna mostruosamente sviluppata nella lunghezza delle gambe. un tizio microfonato che le arrivava
all’incirca all’altezza della vita l’ha misurata e ha dichiarato davanti a tutti, telecamere comprese, che stavamo assistendo al nuovo guinness dei primati in quanto a gambe lunghe. Chiedendomi se anche
gli altri stessero percependo la malinconia del momento leggermente freak, mi sono allontanata dall’improvvisato baraccone, dove la testa del guinness continuava da lontano a svettare sulla meravigliata
folla.
Al Neil Simon Theatre ho visto il musical Hair Spray, coinvolgente e divertente, meglio del film. Unica pecca l’aria condizionata, che pur indossando giubbotto e cappello siamo riuscite a beccarci io la
sinusite e le mie due compagne di viaggio la bronchite.
Il fattore salute, in proposito, mi ha dato conferma che sto invecchiando: per la prima volta viaggiavo con persone che avevano fatto l’assicurazione sanitaria prima di partire, e per tutta la
vacanza ci siamo scambiate antidolorifici per la schiena e antinfluenzali anziché rossetti. Che, riflettiamo, se veramente vogliamo andare nella foresta amazzonica dobbiamo allenarci almeno per
6 mesi, come fanno gli astronauti quando devono andare sulla luna. E siccome io mi voglio sempre distinguere, una sera sono anche finita al pronto soccorso per una vistosa reazione allergica presumibilmente
causata da pane contaminato da noci.
Ovviamente mi imbottisco di bentelan ed evito di usufruire del servizio sanitario americano, preferisco farci un viaggio con quei soldi e continuare col bentelan tanto le istruzioni dicono il sovradosaggio non comporta situazioni di pericolo di vita.

Non potevo andare a New York e non visitare un jazz club che qui pronunciano jaz, di quelli per intenditori locali e non per turisti, un posto piccolo e accogliente. La dritta me la da al Columbus Center
un’italiana a New York da 7 anni sposata a un uomo che invece ci vive da 14, hanno casa in grattacielo su Columbus Circle con vista Central Park, e così su due piedi non sembrano passarsela male i tre: ai
coniugi si aggiunge dolce pargoletto, ALESSANDRO, che la sofisticata donna tiene in grembo. comunque di lei mi fido, è pure vegetariana, e lei mi dice devi absolutely andare allo SMOKE, sta in una zonaccia
vicino la Columbia University, ma il posto è quello che fa per te, bella musica niente turisti solo intenditori, no perditempo. Ci vado, consumazione minima 20$, prendo un mojito e due cosmopolitan, ottimi,
mi ubriaco, nella misura in cui sei allegro e con tutti i ciakra aperti e per questo finisce che conosci metà del locale tra musicisti e semplici utenti. Bello anche se un po’ “accademico” e ingessato il concerto, esaltante la jam session finale, con Johnny, sassofonista giapponese giovane e piccino, sulle corde di Coltrane ma a modo suo, una promessa.

Sto per dire una cosa che se non fosse capitata a me stenterei anch’io a crederci: il posto in cui al terzo giorno finalmente mangio qualcosa di genuino e leggero, che penso mi sento per la prima volta felice di
aver mangiato a New York, è il dim sum vegetariano a Chinatown, in Pell Street. Un cinese. E’ davvero la terra in cui tutto può accadere. Ci avevano detto “Non puoi andare a Ny e non mangiare sushi lo fanno
meglio che in Giappone lo DEVI provare”, e noi lo abbiamo provato, a Soho: ottimo.

Per la regola dove ci sono cani di piccola taglia ci sono gay e viceversa, il meatpacking è una zona molto dog and gay, e pure fashion, friendly. E’ la zona che volgarmente verrebbe definita di tendenza,
almeno a considerare dai prezzi; nei locali, se non indossi lo smoking non entri e vino cattivo tanto quanto costoso, perlomeno nella parte che abbiamo esplorato; più su, lungo l’Hudson, che abbiamo bucato,
la situazione intravista dal finestrino del taxi che stremate ci stava riportando in albergo sembrava più confortevole. Il tassista era cinese, cantava mentre guidava, aveva difficoltà a capire l’inglese

e a usare il cambio automatico. A parte da Starbucks e da quello in cui compro gli Obama condom (l’intera collezione comprenderebbe 1 obama, 1 mccain, 1 palin, ci accordiamo per 3 obama), se paghi cash ti guardano male.

Le foto coi pompieri della caserma vicino Columbus circle: belli loro e così gentili e disponibili, ci hanno pure messo in testa i loro pesanti cappelli, e uno era davvero il più bello, con la sua Ducati ci
diceva “vedete io amo tutto quello che è italiano”… e un altro aveva addirittura sposato una SICILIANA… sudori freddi, ragazzi miei, giacché, tra Cary Grant e William Holden, ho nutrito del tenero per
l’intera categoria: volevo assolutamente sposare un pompiere, il mio personal hero, oppure male che vada diventarlo me medesima (da qui il mio soprannome: grisuma).

Mi avevano detto che a NY incontri gente come Meryl Streep e Woody Allen così, in fila dal libraio o dal giornalaio o a farsi un hot dog in Central Park. Noi il più famoso che abbiamo incontrato è un

giornalista della rai che conduce il tg dei ragazzi. Il METROPOLITAN museum, una vera e propria overdose di arte, c’è di tutto, che pensi quanto gli americani abbiano saccheggiato in giro, a
un certo punto ti gira pure la testa (e se non era colpa di Stendhal, era perché non avevamo mangiato, e ogni volta che leggevo che ne so “il parmigianino” o “carpaccio” il mio stomaco
dirottava la mente su un orizzonte di senso culinario).

Coney island stava ferma nelle mie fantasie cinematograficamente stimolate, dovevo vederla.
Il lunapark era chiuso per la stagione, lonley planet consiglia noi obbediamo: si mangia da nathan’s qualcosa di veramente tipico e pericoloso, spiaggia semi deserta, gabbiani, il vento, l’oceano, è
il mio primo oceano, un uomo fa tai-chi, uno corre col suo cane, due vanno in cerca di oro col metaldetector, un uomo su un trabiccolo a tre ruote al traino di una specie di aquilone si diverte a imbrigliare
il vento, una famigliola ebrea gioca sulla sabbia: la bambina rincorre un bicchiere di plastica che nonostante l’ostinazione non raggiungerà mai, un gabbiano mi si fa vicino vicino, ma io l’unica cosa che
posso offrirgli al momento è una sigaretta di tabacco, glielo dico pure, lui però non si schioda e penso forse parla solo l’americano, traduco; e infine il ristorante Tatiana, con un solo tavolino e due clienti che
svolazzano riflessi sulle vetrate insieme al mare.
Ci mettiamo a raccogliere conchiglie, sul lungomare come fantasmi appaiono le foto degli uomini e delle luci che hanno fatto la storia del lunapark, esuberante l’inaugurazione nel 1903, varia ruspante
gioventù gioca in spartani campi da squash.

Svoltiamo a sinistra, abbandonando il mare, ci troviamo in piena Little Odessa, nei viali alberati che portano verso il centro, sembrerà il clichè dei potenziali sordidi retroscena, ma l’impressione era di stare in un autosalone del lusso: suv e mastodontiche macchine dai vetri oscurati brillavano pulite e linde al sole. A Little Odessa tutti parlano il russo, alcuni perché l’americano neppure lo sanno, come Leonid, ha una bancarella dove compro delle spilline di Lenin e ha gli occhi chiari e malinconici velati dalla cataratta e un sorriso che gliele comprerei tutte le spille e tutta la bancarella per farlo stare sereno e felice senza doversi sbattere così tanto per tirare a campare.

E questa è solo una parte di quello che ho vissuto, c’è stata anche la messa all’Abyssinian Baptist Church ad Harlem (non vi dico che mise), la gita alla signora della libertà e a Ellis Island, il riflesso del tramonto sui grattacieli, i concetti di uptown e downtown, la prima sera al village, i musicisti incontrati alle fermate della metro o per strada, CENTRAL PARK, il museo di storia naturale, il diner dell’edison con le cameriere burbere e frettolose vestite di rosa.
Le luci. Le luci.
Semmai mi cogliesse altra sentimentale logorrea su New York vi racconterò anche questo e altro ancora, perché new york è una città
che non finisce mai…
baci baci
Ilenia

PS: l’unica cosa che mi piace di torino in questi giorni è il freddo, che un po’ somiglia a quello degli ultimi giorni a NY. E poi svegliarsi e dalla finestra vedere a un passo la Mole innevata, e le case e gli alberi più lontani in collina come canuti fantasmi nella soffice nebbia. Fattori meteorologici cercano di convincermi che esistono validi motivi per rimanere a Torino, la mia padrona di casa che ha deciso di vendere costringendomi a pensare a ulteriore trasloco potrebbe però far pendere l’altro piatto della bilancia.

Consigli visione post TFF: coloro che predicano il buon dio spiegano l’incomprensibile con l’assurdo diceva il caro Flaubert, andate a vedere Religulous, documentario di Larry Charles, il regista di Borat.
E poi, forse difficile da reperire ma vederlo è una gran bella esperienza, certo sarebbe bene su grande schermo, ma comunque, El cant dels ocells (di Albert Serra, Spagna 2008).

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